Quando a metà marzo ho avuto l’idea di creare il progetto ISOLATI – racconti visivi di un’Italia in contenimento, immaginavo metà delle cose che sarebbero successe da lì a poco. Sapevo, ad esempio, che stavano nascendo in quelle ore delle pagine simili e che molti colleghi professionisti avevano già iniziato a sviluppare dei racconti domestici.
Non sapevo che da lì a poco i social si sarebbero inondati di tanti #raccontacilatuaquarantena e che la diffusione della pandemia avrebbe anche standardizzato le reazioni.
A distanza di un mese è bene che questo piccolissimo progetto si fermi qui. Immaginavo, infatti, che più o meno a metà aprile la voglia di raccontare la novità sarebbe venuta meno (e il bello sarebbe venuto ora, in realtà) ed è più o meno quello che è accaduto.
Arrivati a questo punto, mi piacerebbe fare una breve analisi di quello che è emerso, non prima di aver spiegato cosa c’era davvero dietro uno dei tanti progetti di “storytelling” della quarantena.
Ecco, ad esempio, non volevo prendesse la forma più comune dello storytelling da social. Ho provato a dare una traccia libera, che fosse semplice per tutti e allo stesso tempo potesse essere un esercizio più impegnativo per chi avrebbe voluto cimentarsi. Ho invitato ad allontanarsi dall’istantaneità espressa da un hashtag, che ha rappresentato l’unità di misura della comunicazione degli ultimi dieci anni. Era, in realtà, un esercizio molto complicato per chi fa della fotografia un uso comune e quotidiano di semplice documentazione.
Ma ho creduto fortemente che sarebbe stata una buona occasione per tanti di scoprire cosa significa tradurre in immagine un pensiero. Non mi importava molto vedere la poesia delle (belle) foto dei colleghi in giro per il mondo, ero curioso di vedere la vita di tutti, fosse anche il gattino sul tappeto. Non mi importava stimolare il cosa, ma il perché. Ho giocato un po’, visto che il tempo era dalla mia parte, ho provato a capire cosa ne sarebbe venuto fuori. Ho avuto, nel complesso, utili indicazioni e grandi conferme.
(potete immaginare che, tra gli addetti ai lavori, si sono aperte accese discussioni. Vi riporto qui un pensiero che non condivido, ma che rimane un punto di vista validissimo, di Leonello Bertolucci per il Fatto Quotidiano)
Ad esempio: mi ha stupito molto il fatto che nell’era, se pur calante, del selfie, ne siano arrivati un numero davvero esiguo, nonostante la traccia invitasse a esprimere una propria condizione. Sono arrivate pochissime foto con filtri evidenti, ma molto materiale lasciato senza alcun ritocco. C’è stato molto colore, anche lì dove le foto sono state un minimo corrette. Si potrebbero fare moltissime osservazioni e sono sicuro che in questa fase 2, o da 1 e mezzo, di una quarantena che è diventata ormai meno surreale sarebbero arrivate immagini totalmente differenti e più interessanti.
Nel complesso sono contento di aver creato una piccola comunità temporanea di persone che ha seguito con un entusiasmo inaspettato il progetto, anche dopo la storiaccia della cancellazione del primo profilo, che mi ha fatto perdere numerose foto mai pubblicate. Ringrazio chi mi ha mandato più di una fotografia nel corso dei giorni e mi scuso tantissimo con coloro la cui foto non è stata pubblicata, perché nella gestione di diversi canali mi sono perso qualcosa per strada.
Conoscere la fotografia
C’è una nota dolente in tutto questo e invito chi legge, o chi ha partecipato, a non vederla assolutamente come una bocciatura, piuttosto come un invito ad alcune riflessioni.
L’Italia è il Paese dei paradossi, espressi anche in fotografia. Abbiamo una cultura dell’arte classica che non ha nessun altro popolo al mondo, ma la giovane fotografia non è mai riuscita a imporsi. Oggi viviamo un presente in cui sempre più fotografi italiani si stanno affermando a livello internazionale, ma nella cultura fotografica di massa (consentitemi il termine) rimaniamo molto indietro. Abbiamo iniziato percorsi formativi nelle scuole, in ogni angolo di ogni città c’è un corso di fotografia, ma si fa fatica a venir fuori dalla mera didattica tecnica. Abbiamo tutti uno strumento tra la mani capace di catturare un fascio di fotoni e crearne un’immagine digitale, ma non sappiamo molto di quello che facciamo.
La facilità di utilizzo della camera di uno smartphone e il concetto di momento da condividere lanciato dai social ormai più di 10 anni fa, ha impoverito drasticamente la riflessione che precede lo scatto e inquinato il livello medio qualitativo. I puristi dicono che la fotografia diventa tale solo se finisce su un foglio di carta e non mi sento certamente di controbattere. Ma è anche vero che la stampa è la fase finale di un processo, talvolta neanche quella più importante, che parte dalla testa, da un’idea, da un desiderio e attraversa tutto un percorso di elaborazione personale e spesso molto intimo.
Molto delle foto che mi sono state inviate sono state pensate sulla base di una propria piacevolezza estetica. Lo capisco, cercavo anche io di fare foto “belle” quando ho iniziato a fotografare, ormai diversi anni fa. È per questo che voglio dare un consiglio a chi mi scrive solitamente di essere un appassionato di foto o a chi vorrebbe iniziare ad approfondire la materia: la fotografia è un mondo sconfinato e bellissimo, è certamente estetica ma è anche e soprattutto narrativa, documentazione, espressione, comunicazione, terapia, filosofia, sociologia, scoperta.
Questo piccolo progetto mi ha convinto del fatto che noi stessi fotografi, in primis, dovremmo impegnarci a parlare più e meglio di fotografia, non solo ai vernissage delle mostre. Meno corsi che spiegano cos’è un diaframma e più incontri aperti in cui si chiacchiera, si visionano fotografie, ci si confronta sui progetti di grandi autori.
Per quello che può valere, ancor più di prima rimango a disposizione di chiunque abbia voglia di consigli di letture, suggerimenti, indicazioni.
Se non studiate a fondo, non sapete cosa vi perdete.